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L’ombra lunga di allevamento e agricoltura

L’enfasi sull’aumento della produzione totale e sul profitto aziendale, tipica della concezione economicista del cibo, è stata fra i fattori determinanti della progressiva industrializzazione dell’agricoltura e dell’allevamento. La produzione totale netta è, in effetti, aumentata, ma a costo di una serie di effetti collaterali sempre meno trascurabili e sempre più insostenibili.

La cosiddetta rivoluzione verde in agricoltura ha raggiunto lo scopo di aumentare le rese agricole, localmente e lungo un arco temporale limitato, attraverso la selezione di alcune specie vegetali più resistenti, l’irrigazione intensiva e l’utilizzo di fertilizzanti chimici e di pesticidi. Tali modalità agricole ben si adattano alla monocoltura da esportazione, ma hanno un impatto ambientale molto elevato. Il controllo chimico mirato del suolo implica una sterilizzazione della naturale biodiversità e della capacità di rigenerazione ed una conseguente dipendenza dal nutrimento e dalle difese introdotte dall’esterno, tramite pesticidi e fertilizzanti chimici. Nel contempo, l’irrigazione intensiva è spesso incompatibile con i cicli idrologici che mantengono la stabilità e la buona salute dei fiumi e dei corsi d’acqua. Tale trasformazione produttiva rende i processi agricoli molto più rapidi e di larga scala, ma interrompe i cicli di rinnovamento di interi ecosistemi, rendendoli straordinariamente vulnerabili e, nel lungo periodo, inutilizzabili[1]. Inoltre, la chimica di sintesi che tiene in vita e difende le specie coltivate da attacchi esterni è responsabile dell’inquinamento persistente delle falde acquifere e degli stessi prodotti agricoli alimentari. Infine, la dipendenza dai combustibili fossili, nella meccanizzazione della lavorazione agricola, nel trasporto e nella conservazione dei prodotti, nella produzione stessa di pesticidi e fertilizzanti, è oggi quantomai problematica, sia dal punto di vista strettamente energetico, sia da quello delle emissioni di CO2 e dunque del cambiamento climatico.

Se sino ai primi anni 2000 le conseguenze negative del sistema agroalimentare industriale erano evidenziate e discusse per lo più da correnti di pensiero minoritarie, animaliste e ambientaliste, negli anni più recenti la questione è entrata a pieno titolo nel dibattito pubblico istituzionale. Nel 2007, la FAO (Food and AgricultureOrganization), ovvero l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, ha pubblicato per la prima volta un rapporto sull’impatto socio-ambientale del sistema alimentare industriale dal titolo eloquente “L’ombra lunga del bestiame: questioni ambientali e possibili opzioni” (FAO 2006). I consumi di prodotti animali, in particolare di carne sono raddoppiati nel Nord industrializzato negli ultimi 40 anni, mentre nei paesi del Sud globale sono raddoppiati negli ultimi 20 anni[2]. La quantità di terra destinata all’allevamento, per via diretta, con il pascolo, e per via indiretta, con la produzione di mangimi, è aumentata di conseguenza.

L’industrializzazione dell’allevamento presenta dunque effetti collaterali ancora più marcati di quelli relativi all’agricoltura, anche perché dipende in larga misura dalle monocolture intensive. Nelle industrie zootecniche contemporanee, i cosiddetti “CAFO” (Confined Animal Breeding Operations), il disaccoppiamento tra il ciclo di vita del bestiame e quello della terra è completo. Si tratta di una sorta di urbanizzazione degli animali (Pollan 2008), i quali vengono nutriti con mangimi che provengono da monocolture spesso di importazione[3]. Il disaccoppiamento tra la terra e l’allevamento si verifica anche nel riciclo delle deiezioni animali, che diventa impossibile nei CAFO a causa dell’eccessiva concentrazione di inquinanti chimici e di azoto, sottoprodotto dalle diete ad alto rendimento.  L’inquinamento chimico dell’allevamento intensivo è, in effetti, a sua volta molto elevato. Il confinamento forzato di  un elevato numero di capi di bestiame su superfici ridotte rende gli animali molto vulnerabili alle infezioni e impone l’utilizzo di elevate quantità di antibiotici. Gli stessi farmaci antibiotici sono utilizzati in sinergia con terapie ormonali per “fertilizzare” gli animali, ovvero per  aumentarne il peso in tempi ridotti[4]. La terapia chimica filtra naturalmente nel sistema acquifero ed alimentare con conseguenti timori per la salute umana e degli ecosistemi coinvolti. Inoltre,  le condizioni di vita degli animali allevati in modo intensivo e gestiti con i medesimi criteri della produzione in catena di montaggio tipica dei prodotti industriali, sono sempre più difficilmente accettabili, non più soltanto dalle correnti minoritarie degli animalisti[5].

Infine, uno dei fattori negativi oggi più significativi della zootecnia industriale è l’impatto sul clima. Secondo le ultime stime dell’autorevole World Watch Magazine l’allevamento intensivo è responsabile attualmente del 51% delle emissioni di gas serra in atmosfera, superando tutte le altre attività umane, inclusi i trasporti e la produzione industriale[6] (Goodland e Anhan 2009). L’entità della percentuale impattante è dovuta all’effetto complessivo di molteplici fattori che includono le emissioni gastriche di metano[7] dei bovini, costretti ad una dieta a base di cereali non consona al loro sistema digerente, l’emissione di ossido di azoto dalle deiezioni, la deforestazione per il pascolo e la produzione dei mangimi.

A cura di Alice Benessia, Maria Bucci, Simone Contu, Vincenzo Guarnieri.


[1] Un esempio di desertificazione indotta di proporzioni drammatiche è quella del lago Aral e dei territori attigui, devastati dalla monocoltura intensiva del cotone, nel secondo dopoguerra.

[2] In particolare con l’ingresso dell’India e della Cina nel mercato globale della carne (State of the World 2006).

[3] Il flusso globale di derrate agricole ad uso animale è cresciuto esponenzialmente con la liberalizzazione dei mercati e dei capitali. Il Brasile ad esempio produce una quota significativa del mangime destinato al sempre crescente allevamento di carne in Cina (Nylor et al. Science 2005).

[4] Alcuni dati rendono evidente la proporzione del problema: negli Stati Uniti il 70%  degli antibiotici sono prodotti e venduti ad uso animale. Negli ultimi 50 anni, il peso medio dei polli da macello è raddoppiato e i tempi medi dalla nascita al macello si sono dimezzati (State of the World 2006).

[5] Si veda a tal proposito il lavoro filosofico di Peter Singer sullo specismo  (Singer 2003) come forma di discriminazione di specie analoga al razzismo, e il lavoro letterario del Premio Nobel Coetzee dal titolo “La vita degli animali” (Coetzee 2003) e il lavoro cinematografico del regista Nikolaus Geyrhalter nel film documentario “Il nostro pane quotidiano” (Festival Cinemambiente Torino 2005).

[6] Per la produzione di 225 grammi di patate si emette una quantità di CO2 pari a quella generata dal guidare un’auto per 300 metri. Per la stessa quantità di asparagi, è come guidare la stessa auto per 440 metri. Per la carne di pollo, molto di più: 1,17 km, per il maiale 4,1 km, per il manzo 15,8 chilometri.

[7] Il metano è un gas climalterante venti volte più impattante della CO2.





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